2020, anno bisestile. Come vorrebbe la tradizione popolare, l’anno bisestile è foriero di disgrazie “Anno bisesto, anno funesto”, recita un vecchio proverbio.
Razionalmente ci rendiamo conto che una generalizzazione di questo senso non ha senso, che un lasso ti tempo di 365 (anzi, 366) giorni non può portare con sé un bilancio di negatività per tutti gli uomini della terra. Come sempre accade qualcosa andrà bene e qualcosa male, saremo più o meno felici e la fortuna di alcuni dipenderà inevitabilmente dalla sfortuna di altri.
Cos’è la superstizione
La superstizione è una convinzione di natura irrazionale che attribuisce a determinati comportamenti la possibilità di influenzare eventi futuri senza che fra questi comportamenti e gli eventi stessi vi sia alcuna relazione di causalità.
Da qui il bisogno di ricorrere all’uso del soprannaturale nel tentativo di contrastare il verificarsi di un avvenimento che si ritiene essere avverso.
Da dove nasce la superstizione
Nel caso specifico dell’anno bisestile, dobbiamo fare un passo indietro fino all’antica Roma (precisamente all’arrivo di Giulio Cesare nell’anno 46 a.C.) quando con il “calendario giuliano” venne decisa l’introduzione dell’anno bisestile per compensare la differenza fra l’anno civile e l’anno solare.
Il primo infatti, di 365 giorni, non è esattamente uguale all’anno solare, che misura 365 giorni, 5h, 48m, 45s. A lungo andare questo scostamento avrebbe portato ad uno spostamento delle stagioni nel corso dell’anno, motivo per cui si rese necessario un intervento drastico.
Il mese di febbraio era dedicato alle commemorazioni funebri e ai riti di purificazione. Non il massimo dell’allegria, quindi. Un mese infausto ossia, letteralmente, che aveva a che fare con eventi spiacevoli e luttuosi. Se si considera che nell’anno bisestile si era deciso di allungare questo mese di un giorno, è facile capire perché non fosse visto di buon occhio.
La convinzione che l’anno bisestile sia negativo si va diffondendo nella cultura dei paesi di lingua neolatina dove le anomalie e le irregolarità (in questo caso del calendario) erano guardate con sospetto e alle quali veniva attribuito un valore negativo.
Il significato di infausto, però, non stava a significare tanto “portatore di sventura” quanto periodo sfavorevole per intraprendere attività. “Anno bisesto anno senza sesto”, recitava un altro proverbio, dove “senza sesto” sta appunto a significare la mancanza di sesto (o sesta) che, dal latino sextus, indica il compasso, simbolo di precisione e regolarità.
In generale, possiamo dire che ogni superstizione ha un’origine spiegabile in modo razionale ma nel corso del tempo, estrapolata dal contesto che le ha dato origine assume una connotazione di assoluta irragionevolezza.
La superstizione nell’uomo primitivo
Andando indietro negli anni è facile rendersi conto di quanto la vita dei nostri primi antenati non fosse affatto facile. I fenomeni della natura e i pericoli insiti nelle attività quotidiane dovevano sembrare impossibili da spiegare se non con la presenza di spiriti invisibili che ne regolassero la cadenza. Da qui il desiderio di ricorrere ad amuleti e rituali che tentavano confusamente di far valere la volontà dell’uomo sul corso degli eventi.
Gli animali sono superstiziosi? L’esperimento con i piccioni
Burrhus Skinner (1904-1990), noto psicologo statunitense dell’Università di Harvard, ha studiato il comportamento degli animali focalizzandosi sul concetto di condizionamento operante, ossia il fatto che un animale riesce a capire che una sua azione provoca una conseguenza.
Il suo esperimento si basava sull’uso di una scatola, che ha preso il nome di Skinner box, all’interno della quale venivano chiusi dei topolini. La scatola era munita di una leva che, una volta azionata, dispensava del cibo di cui i topolini erano ghiotti. Ben presto gli animali avevano imparato ad utilizzare questa leva per ottenere la gratificazione desiderata.
In una successiva fase dell’esperimento, Skinner utilizzò dei piccioni ma questa volta la scatola non aveva una leva che regolava l’erogazione del cibo, bensì un timer che si attivava in momenti prestabiliti, indipendentemente dalle azioni compiute dall’animale.
Il risultato ottenuto fu piuttosto sorprendente: il piccione cominciò ad eseguire dei rituali che finì per associare alla comparsa del cibo anche se naturalmente non esisteva nessun nesso reale tra questi comportamenti e l’effetto sperato. Nonostante questo nel piccione scattava la convinzione che fosse proprio il suo comportamento a provocare la comparsa del cibo e continuava quindi a ripeterlo in modo ossessivo.
Messi nelle stesse condizioni, altri piccioni rivelarono un comportamento analogo, ciascuno associando uno suo specifico comportamento (che risultò essere dei tipi più differenti) all’ottenimento della gratificazione.
Ognuno di loro si era creato un suo personale rituale che si ostinava a ripetere nonostante il fatto che il più delle volte non portasse alcun risultato.
Il tipico comportamento di un individuo superstizioso!
E’ tutta colpa dell’ippocampo
Per verificare i risultati di questo esperimento, si decise di ripeterlo, questa volta con animali più evoluti come i mammiferi. Si tornò ad utilizzare la scatola dotata di timer ma prendendo come cavie dei ratti.
Ancora una volta il risultato fu spiazzante: i ratti (che avevano appreso il meccanismo relativo al condizionamento operante) non cadevano invece in comportamenti auto-ingannanti e questo spinse i ricercatori ad approfondire lo studio del loro cervello fino a spiegare con l’evoluzione della specie questa capacità di proteggersi da false convinzioni e individuando nell’ippocampo l’area del cervello deputata a questa protezione.
Nell’uomo l’ippocampo risulta essere un’area ben sviluppata ma, in condizioni di forte stress, la produzione di cortisolo tende a danneggiare quest’area bloccando la produzione di cellule staminali nell’ipocampo. Questo renderebbe più fragili e propensi a credere (o meglio a sparare) di pote indirizzare i capricci della dea Fortuna a proprio favore con il ricorso a comportamenti rituali.
“Essere superstiziosi è da ignoranti ma non esserlo porta male.”, diceva Eduardo De Filippo
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