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La tristezza nella storia dell’umanità

tristezza
Tempo stimato di lettura: 3 minuti

In questo articolo si cerca di illustrare sinteticamente l’emozione della tristezza sia da un punto di vista neuroscientifico che storico-culturale, tentando in fine di trovare qualche lato positivo a questa spiacevole emozione.

La tristezza: che cos’è?

La tristezza è un’emozione primaria che si prova nel momento in cui si sente o si crede di aver subito una perdita. Ogni tipo di perdita, dalla più insignificante a quella più devastante, che di norma risulta proporzionale alla causa a monte sia nell’intensità che nella durata. Quindi si ha una sensazione di scoraggiamento e di perdita d’energia che, in generale, porta l’individuo a ridurre il ritmo delle proprie attività. Infatti è l’emozione contraria a quella della gioia.

Ci sono diversi gradi di tristezza, da quelli più lievi che spesso colgono tutti noi fino a quelli gravi e cronici che possono portare alla depressione.

È un’emozione primaria ed è comune a tutti gli esseri umani anche di culture diverse, tutti sono in grado di percepirla e riconoscerla nei loro simili, per questo è considerata un’emozione primaria universale.

Le espressioni della tristezza sono: sguardo spento, palpebre superiori scese e sopracciglia piegate verso il basso, la pelle intorno alle ciglia forma un triangolo e gli angoli della bocca si abbassano. Inoltre è caratterizzata da un aumento relativamente elevato del battito cardiaco e da piccolissime variazioni di temperatura delle mani.

Dal punto di vista neuroscientifico

Dal punto di vista neurobiologico attraverso studi effettuati tramite tecniche di neuroimmagine si sono evidenziati un’attivazione della corteccia prefrontale mediale, della corteccia cigolata anteriore, dell’ippocampo, dell’amigdala, dell’ipotalamo e di zone del tronco encefalico.

Quando la tristezza si prolunga in modo indefinito, sproporzionato rispetto alle circostanze che l’hanno causata e si è convinti che nulla basterà per ribaltare la situazione si tratta di depressone. Quest’ultima è un’emozione secondaria basata sulla tristezza e ad essa collegata ma che in questo articolo non verrà trattata.

 

Dal punto di vista storico-culturale

C’è correlazione tra tristezza e pesantezza e ciò si ritrova risalendo all’etimologia del termine italiano. Infatti deriva dal latino “tristis”, un aggettivo che abbracciava una gamma di significati negativi e pesanti, come “infelice”, “cupo” “funesto”, “austero” e “torbido”.

I medici ed i filosofi dell’antica Grecia e di riflesso anche dell’antica Roma sostenevano la cosiddetta “teoria umorale”. Questa teoria si fondava sulla credenza che salute e malattia dipendessero dall’equilibrio tra i quattro fluidi corporei descritti all’epoca: sangue, flegma, bile gialla e bile nera. Le persone che subivano delle alterazioni nella salute avevano ripercussioni evidenti nel temperamento e nell’affettività a causa dello squilibrio di questi fluidi. A coloro che avevano la tendenza alla tristezza per un eccesso di bile nera veniva attribuito un temperamento melanconico (il cui significato letterale è “bile nera”), il cui concetto ha dato origine alla parola in uso ancora oggi, anche se attualmente è usata più come un sinonimo di depressione. Al contrario chi presentava un eccesso di sangue aveva un temperamento sanguigno, mentre un eccesso di flegma portava ad un temperamento flemmatico ed un eccesso di bile gialla causava un temperamento collerico.

La tristezza fu un argomento molto trattato nel Rinascimento. I filosofi ed i medici dell’epoca erano affascinati soprattutto dal legame tra la tristezza ed il peso. I medici, riprendendo la teoria umorale, ritenevano che la tristezza fosse causata da un eccesso della sostanza densa nota come “bile nera” e che il corpo umano ne risultasse appesantito. Per questo secondo loro le persone che provavano questa emozione erano anche goffe, i loro volti si presentavano cadenti e la loro andatura era lenta. Si credeva però che la pesantezza fisica rendesse più consistente il carattere di un uomo, quindi la tristezza era associata ad una maggiore sobrietà nel comportamento e ad una maggiore tenacia e risolutezza.

I teologi protestanti stabilirono l’esistenza di una particolare forma di tristezza che chiamarono “dolore divino”, un lutto positivo per chi lo provava, derivante dall’ammettere le proprie carenze spirituali e la propria indegnità rispetto a Dio.

Nel 1539 l’avvocato inglese Thomas Elyot scrisse un libro “The Castel of Helth”, un trattato di medicina e manuale di auto-aiuto. In esso l’autore invitava i lettori a prendere contatto con la tristezza degli altri per meglio sopportare la propria. Inoltre forniva lunghe descrizioni delle varie cause della tristezza. Secondo lui familiarizzare con una normale tristezza era un fattore protettivo rispetto alle più gravi manifestazioni che potevano portare anche al suicidio.

Nel 2007 gli psichiatri Allan Horwitz e Jerome Wakefield autori del libro “La perdita della tristezza” sostengono che alcune persone al quale viene diagnosticata la depressione in realtà sono soltanto tristi e questo eccesso di diagnosi è l’unica cosa che può spiegare il sorprendente aumento dei casi.

 

Conclusioni

In conclusione la tristezza è un’emozione comune a tutti gli esseri umani al di là delle culture. Seppure sia spiacevole provarla e nessuno la sceglie è un’emozione importante nella nostra vita perché è il momento in cui una persona raduna le proprie forze per adattarsi ad una nuova versione di sé stessa, dopo aver subito una qualsiasi perdita. Se si considera la tristezza come una strana, ignota e sgradevole creatura e quindi la si tratta con ostilità si diventa meno resistenti e resilienti al suo effetto e quindi più vulnerabili alle sue forme più gravi.

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